Brindiamo a San Martino
Le sagre e il buon vino dei Castelli Romani
L’11 novembre si festeggia L’Estate di San Martino, una ricorrenza a metà strada tra il sacro e il profano, visto che unisce la liturgia cristiana legata a San Martino di Tours- vescovo cristiano del IV secolo, poi proclamato tra i primi santi della Chiesa cattolica – alla cultura contadina, con il rinnovo dei contratti d’affitto delle terre, che avveniva nella medesima data e, al termine della stagione agricola, l’apertura delle botti di vino novello; infatti, come dice il proverbio, “A San Martino ogni mosto diventa vino” e si festeggia con le degustazioni. Il mese di novembre segna il termine della vendemmia che solitamente inizia a settembre e nelle regioni più calde anche prima, così che l’11 novembre è un’occasione nel Lazio, per visitare le sagre sul territorio e brindare con del buon vino locale. Sono molte le cantine che, restando aperte per le degustazioni, diventano meta di turisti, anche stranieri, interessati ad assaggiare il vino. Un momento importante per la cultura enogastronomica del territorio, con varie proposte di prodotti e preparazione di piatti tipici, organizzazione di stand per la vendita e tanto divertimento tra musiche, balli e rievocazioni storiche. Un’occasione da festeggiare passeggiando nei piccoli borghi, prima dell’arrivo del freddo che accompagna la stagione invernale.
…per le vie del borgo “dal ribbollir dè tini, va l’aspro odor de i vini l’anime rallegrar”, come scriveva Giosuè Carducci nella poesia “San Martino” (1883) e continuava: “Gira su’ ceppi accesi lo spiedo scoppiettando: sta il cacciator fischiando su l’uscio a rimirar…”.
Proprioin occasione delle sagre per San Martino, che quest’anno ci saranno già a partire da sabato 9 novembre, si può fare un tuffo nella cultura contadina che laddove sopravvive, certamente lo fa in una veste diversa e la stessa lavorazione del vino ha raggiunto livelli avanzati di studio e tecnologia, dove ogni processo è studiato e controllato da professionisti del settore e vede l’impegno di una grande comunità di operatori; la raccolta è meccanizzata, mediante macchine a scuotimento verticale o orizzontale; ed inoltre, c’è maggiore attenzione alle norme igieniche e di pulitura delle botti, con frequenti indagini di laboratorio da parte di personale specializzato.
Il vino italiano è un prodotto di qualità DOP – denominazione di origine protetta Ue- – quale prodotto inimitabile al di fuori di un certo territorio di produzione e, per le sue specificità, esportato e apprezzato in tutto il mondo.
Il vino dei Castelli Romani ha una tradizione millenaria. La zona della denominazione Roma DOC si estende tra l’Agro romano e l’Agro pontino e comprende i Colli Albani, i Colli Prenestini, la Sabina romana, i territori litoranei e dell’entroterra della campagna romana. Frascati ha avuto una DOC propria nel 1966 e due DOCG nelle versioni Frascati Superiore e Cannellino di Frascati. La DOC dei Castelli Romani ha vini bianchi e rosati del tipo secco, amabile e frizzante e vini rossi del tipo secco, amabile, frizzante e novello.
Il vino locale che abitualmente si assaggia nelle fraschette, tipici locali romani, è la cosiddetta “romanella”, considerato un vino della cultura contadina, intorno ai 14 gradi, dolce, leggero e frizzante; si accompagna a piatti della tradizione romana, dalla porchetta ai tonnarelli cacio e pepe, alla trippa al sugo, la coda alla vaccinara e ricchi antipasti e dolci per i più golosi.
Approfondimento: come nasce il vino definito il “nettare degli Dei”.
Facciamo un passo indietro per capire come nasce il “nettare degli Dei” e quali sono le usanze del passato, conservate nella memoria dei nostri nonni ma sicuramente da tramandare anche ai bambini di oggi.
Ci riferiamo alla vendemmia degli anni ’50, quando il 60% circa degli italiani viveva di agricoltura e la famiglia intera si riuniva nei weekend della raccolta e della lavorazione delle uve; un lavoro pesante intervallato da momenti di convivialità come durante il pranzo, a base di prodotti tipici, il pane e il formaggio portati da casa, i frutti freschi raccolti direttamente dall’albero, fichi, mele e pere; brindando con un buon bicchiere di vino prodotto negli anni precedenti; e poi, la ripresa dei lavori tra canti e allegria.
E accadeva che, dopo la raccolta dell’uva fatta rigorosamente a mano, il prodotto portato in ceste di vimini veniva riversato in una grande vasca di legno; allora, venivano richiamati i più giovani che lavatisi ben bene i piedi e le gambe avevano il compito di pigiare i chicchi d’uva con i piedi – si racconta che i piedi dei ragazzini fossero più delicati nello schiacciamento degli acini – fino a realizzare il mosto che veniva fatto defluire nei tini per la fermentazione. In seguito, il vino veniva posto nelle botti e lasciato a decantare per altre settimane; fino all’11 novembre, giorno di San Martino, in cui si festeggia con l’apertura delle botti del vino nuovo e la degustazione. Gli acini migliori di uva bianca, esiccati, diventavano l’uva passa; venivano preparati anche deliziosi dolci al mosto da mangiare durante la vendemmia.
Nel tempo, la pigiatura ha lasciato il posto via via a strumenti meccanici, prima che tecnologici, come il torchio con avvitamento e rulli dentati azionati da una manovella girata a mano; mentre i carretti trainati da muli che portavano il tino e poi l’uva, sono stati sostituiti da veloci trattori. Senza contare il lavoro di preparazione degli attrezzi e recipienti, tini, botti e damigiane, che richiedeva giorni interi di lavoro, oggi più accurato sotto il profilo della pulizia e dei controlli ma certamente più veloce.
Angela Attolico